Faremo gli occhiali così!

Eccoci qua

La classe operaia va in paradiso?

Agosto 2007

"Another shity day in paradise" è la chiosa che Anthony, operaio addetto al reparto montature, appone saggiamente alla fine di ogni giornata lavorativa, entrando in macchina e preparandosi ad attraversare tutta Sydney per far rientro a casa.
Io siedo al suo fianco, allaccio la cintura di sicurezza e mi godo lo spettacolo di esaurimento da routine urbana offertomi da questo macilento signore con cappellino rosso della birra Carlton perennemente calzato in testa, occhiali da sole avvolgenti con lenti a specchio, collare ortopedico – retaggio di non so quale incidente d’auto – e lunga barba canuta da bounty hunter del bush metropolitano. Colonna sonora dello show: i primi quattro volumi della discografia dei Led Zeppelin, di cui il mio collega è grande fan.
Per
le prime due settimane di lavoro ho preso i mezzi pubblici, calcolando i tempi con fantozziana precisione: il treno alle 7 e 18 fino alla city e poi il
bus alle 7 e 26. Finché Anthony non mi ha offerto un passaggio quotidiano sulla sua Hyundai Getz bianca.
Il micragnoso mi
fa pagare i tre dollari del pedaggio del Sydney Harbour Bridge che collega il
centro città con la zona nord, dove io lavoro.
Ma lo spettacolo vale il prezzo del biglietto e non importa se l’ingiustificata trafficofobia del mio chauffeur mi faccia svegliare mezz’ora prima del necessario: la presunzione di ipotetiche code da evitare
si risolve, infatti, sempre e soltanto, nella certezza di ritrovarsi
davanti al cancello dell’officina con almeno trenta minuti di anticipo sull’orario d’inizio del turno: io  sfrutto questo tempo morto con una triste prima colazione consumata in magazzino. Bah!
D’altra parte, non ho alcuna intenzione di non essere testimone delle battaglie quotidiane di un uomo solo al volante contro tutti gli automobilisti di Sydney:
Anthony che, di tra
i baffi di stoppa cadenti fin sotto il labbro
inferiore
, vomita a denti stretti valanghe di fuck e cunt; Anthony che, con aria sfottente, tira fuori dal finestrino la sua mano sottile con il dito medio alzato; Anthony che schiaccia furente il clacson con tutti e due i palmi; Anthony che ha sempre fretta di arrivare…
Nei pochi momenti in cui non è impegnato nella furibonda guerra stradale, Anthony mi racconta del suo impegno politico: è iscritto allo shootersparty, partito di cacciatori e pistoleri che
si batte per il ritorno in Austrambia di leggi permissive sul possesso di
armi da fuoco. Queste leggi furono abolite nel 1996, dopo il massacro di Port Arthur, importante sito turistico tasmaniano dove un pazzo uccise trentacinque persone in poche ore con un fucile semiautomatico.
K
eith, il responsabile del mio reparto, è invece un pacifista convinto.
Reduce degli anni ’60, con un passato di turbolenze rockettare, che viene fuori ogni qual volta trasmettano alla radio un brano della sua colonna sonora giovanile –  da lui salutato con un mirabile salto alla Pete Townshend – e un presente francescano, fatto di barba lunga e chiacchierate, durante la pausa pranzo, con la coppia di schiamazzanti
kookaburra che vive tra gli alberi dietro l’officina.


Anthony e Keith sono austrambiani di ascendenza anglosassone pura. Non sono quindi ascrivibili alla voce ornitorinco, chiave di volta della mia cartografia umana del paese dalla terra rossa. Q
uesto
schivo e crepuscolare animaletto,
endemico dei fiumi dell’Austrambia orientale e
bizzarro prodotto di un melting pot naturale – acquatico mammifero oviparo con
pelliccia, dotato di becco e
zampe d’anatra, oltreché di uno sperone velenoso – ha messo in crisi per anni ogni tassonomia zoologica.
Ai miei occhi curiosi di viaggiatore simboleggia le liminari e sfumate identità austrambiane.
Come quella di Zak Maritozzi, figlio di un italiano e di una
scozzese, che viene a lavoro con la maglietta dei campioni del mondo di calcio e rivendica la sua italianit
à, nonostante le uniche parole che conosca della lingua di Dante siano: "formaggio", "Geppetto", "Pavarotti" e "basta con la chiacchiere", frase pronunciata infinite volte, e a giudicare dai risultati, con poco profitto, dalla sua insegnante di italiano a scuola.
Oppure come quella di Bruno – operaio nello stesso reparto di Anthony – che è
nato a Sydney, parla inglese come prima lingua, e non si è mai mosso dall’emisfero australe. Ma vive, atteggiamenti e portamento compresi, nel corpo di un uomo del sud Italia: medio-bassa
statura, capelli corvini, pelle liscia e olivastra. I suoi genitori
sono emigrati da Vazzano, in provincia di Vibo Valentia, nel 1954. Via
mare.
Con ironica nostalgia, rivedo in lui, della gente della mia terra, l’allure disinvolto, a tratti ostentatamente malandrino: malandrineria che però è nel suo caso dote del tutto inconsapevole.

Parlo di quel
camminare con gli arti inferiori leggermente arcuati, spingendo
sincronicamente in avanti una gamba e il braccio opposto, l’altro
braccio che rimane indietro insieme alla gamba d’appoggio pronta al
passo successivo, che ripete specularmente il movimento precedente
come in un chiasmo cinetico;
le due spalle e il capo che assecondano, chinandosi e rialzadosi con
andamento ammortizzato, il moto oscillatorio degli arti superiori
corrispondenti; il torso immobile, centro di rotazione.


"Cumu?", a volte mi chiede quando
parliamo e non capisce alcune espressioni del mio dialetto di Calabria
citeriore, lui calabrese ulteriore sydneyano…



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One Response to Faremo gli occhiali così!

  1. ZiEr says:

    Alé Lupi…
    lotteremo per lo scudetto dilettanti…
    Gionni…
    interessante la camminata di Bruno…
    a tal riguardo esistono due scuole di pensiero – sempre due e solo due –
    la sua è una camminata “ara zichitinnò…na vota ca’ si e na vota ca no’…
    altri la definiscono “ara guappa i cartuni”…
    un AbRaXo da ZiEr

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