Un mezzo inglese, un tedesco e un italiano e mezzo

 

condimento per toast

È una ruota che gira
che gira e se ne va
ma ritorna e dopo parte
gira gira e se ne va

 

Settembre 2007

La mia stanza da Eva è attualmente una barzelletta, di quelle che raccontava il mio povero zio. Ci sono un francese, un inglese, un americano e un italiano.
Manca il tedesco, per fortuna. La stanza numero 2 – sulla quale esercito ormai un’autorit
à indiscussa – rappresenta infatti una sorta di Eureka Stokade liberata ma
circondata dagli alemanni che
, come un leitmotiv wagneriano, continuano a giungere in massa all’ostello.
L’unico germanico con cui ho legato
è Herr Philipp, un ragazzo di Berlino
che mi chiama Giovanni Trapattoni e che ha il raro dono di non celare le emozioni, solitamente represse dai
suoi connazionali sotto una corazza di rigore.
Philipp sarebbe dovuto rimanere soltanto un paio di giorni a Sydney:
aveva infatti comprato una Holden Commodore station wagon del ’94
presso un rivenditore di auto usate specializzato nella vendita ai
backpackers ed era intenzionato a dirigersi verso il caldo clima del
Queensland. Ha finito per rimanere dieci giorni da Eva, poiché la vecchia
Holden si
è
rivelata un pacco australnapoletano che ha costretto il povero Philipp a
trascorrere giornate intere presso il meccanico di zona. Gli ho
augurato buon viaggio e buon divertimento ogni mattina per una settimana di seguito,
vedendolo poi ritornare all’ora di pranzo in ostello, con le pive nel
sacco e con lo zaino in spalla.
La volta in cui
è
finalmente riuscito a partire non l’ho salutato, tanto ero sicuro di
ritrovarlo di nuovo alla reception, furibondo e in preda al panico come
sempre, alla ricerca di un letto per la notte. Da quel mancato saluto
non l’ho più rincontrato…

Philipp era diventato la mascotte dell’ostello
e l’oggetto degli sfottò miei e di Andrea, londinese di
padre italiano, le cui origini mediterranee sono svelate dal nome proprio –
che in inglese è invece un nome da donna – e, ancora una volta, dalla gestualità.
Andrea
, quando parla, accompagna le
parole con ampie volute delle braccia e spesso raccoglie a
tulipano le cinque dita della mano destra, altalenando quel fiore nella
ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso nel mezzogiorno d’Italia.
Herr Philipp e Andrea sono stati i compagni delle mie prime settimane sydneyane. La
nostra amicizia si
è edificata intorno a una macchinetta per caffè
Bialetti, dono di viaggio offertomi da premurose cugine.
I due ragazzi nordeuropei sono gli
unici che hanno bevuto la nera bevanda insieme a me: gli altri
stranieri sono infatti letteralmente spaventati dalla moka e rifiutano
come fosse droga pesante questo nettare scuro dall’aroma per loro troppo forte.
Dal caffè
siamo poi passati agli "spaghetti bolognaise", che tuttavia Philipp e
Andrea hanno barbaramente accompagnato con una bibita effervescente al
limone.
Altro estimatore del
mio caffè è Luca Spessotto,
inquieto e coraggioso scugnizzo di Fuorigrotta, emigrato per
disperazione dal golfo di Napoli sei anni fa e da allora in giro per il
mondo. Luca
è
l’unico italiano che manda gli sms in inglese anche ai suoi
connazionali: ha infatti un cellulare austrambiano e non vuole
rinunciare all’uso del T9…

Con lui gioco a scacchi in cucina nelle vuote domeniche d’ozio in cui faccio il receptionist all’ostello.

Mi dispiace lasciare, dopo tre mesi, Eva’s e questo
quartiere di freaks – dove Faber avrebbe trovato ispirazione per una delle sue canzoni sui fiori nati dal letame -, ma mi eccita rimettermi in
viaggio, soprattutto con la migliore compagna possibile, uno dei miei
pochi ma preziosissimi centri di gravit
à.
E mi mancheranno i giapponesi che fanno bollire le tagliatelle in padella o gli inglesi che mangiano
toast farciti con fagioli e spaghetti al pomodoro (quelli che si vendono in lattina, già conditi).
Del resto il fascino della vita in ostello consiste proprio nel continuo via vai di viaggiatori.

 Quella porta d’ingresso gialla, affacciata su Orwell Street, è una
metafora di questa vita bagascia, di questa vita che va, di storie che
restano parallele e di percorsi che si incontrano casualmente, di viaggi completamente diversi e di viaggi
identici, anzi speculari in quanto fatti percorrendo la stessa strada, ma nelle due opposte direzioni.
Ho visto tanta gente fare i bagagli e partire, alcuni anche ritornare dopo mesi e quasi commuoversi nel ritrovare, nello stesso posto, le stesse persone che avevano lasciato andandosene.
Adesso sono io a vedermi di spalle che parto.

Ma lo faccio con la certezza di rincontrare – grazie a questo viaggio lungo un anno – alcuni dei personaggi che mi hanno accompagnato in questa prima parte dell’avventura…

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