Un mezzo inglese, un tedesco e un italiano e mezzo

 

condimento per toast

È una ruota che gira
che gira e se ne va
ma ritorna e dopo parte
gira gira e se ne va

 

Settembre 2007

La mia stanza da Eva è attualmente una barzelletta, di quelle che raccontava il mio povero zio. Ci sono un francese, un inglese, un americano e un italiano.
Manca il tedesco, per fortuna. La stanza numero 2 – sulla quale esercito ormai un’autorit
à indiscussa – rappresenta infatti una sorta di Eureka Stokade liberata ma
circondata dagli alemanni che
, come un leitmotiv wagneriano, continuano a giungere in massa all’ostello.
L’unico germanico con cui ho legato
è Herr Philipp, un ragazzo di Berlino
che mi chiama Giovanni Trapattoni e che ha il raro dono di non celare le emozioni, solitamente represse dai
suoi connazionali sotto una corazza di rigore.
Philipp sarebbe dovuto rimanere soltanto un paio di giorni a Sydney:
aveva infatti comprato una Holden Commodore station wagon del ’94
presso un rivenditore di auto usate specializzato nella vendita ai
backpackers ed era intenzionato a dirigersi verso il caldo clima del
Queensland. Ha finito per rimanere dieci giorni da Eva, poiché la vecchia
Holden si
è
rivelata un pacco australnapoletano che ha costretto il povero Philipp a
trascorrere giornate intere presso il meccanico di zona. Gli ho
augurato buon viaggio e buon divertimento ogni mattina per una settimana di seguito,
vedendolo poi ritornare all’ora di pranzo in ostello, con le pive nel
sacco e con lo zaino in spalla.
La volta in cui
è
finalmente riuscito a partire non l’ho salutato, tanto ero sicuro di
ritrovarlo di nuovo alla reception, furibondo e in preda al panico come
sempre, alla ricerca di un letto per la notte. Da quel mancato saluto
non l’ho più rincontrato…

Philipp era diventato la mascotte dell’ostello
e l’oggetto degli sfottò miei e di Andrea, londinese di
padre italiano, le cui origini mediterranee sono svelate dal nome proprio –
che in inglese è invece un nome da donna – e, ancora una volta, dalla gestualità.
Andrea
, quando parla, accompagna le
parole con ampie volute delle braccia e spesso raccoglie a
tulipano le cinque dita della mano destra, altalenando quel fiore nella
ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso nel mezzogiorno d’Italia.
Herr Philipp e Andrea sono stati i compagni delle mie prime settimane sydneyane. La
nostra amicizia si
è edificata intorno a una macchinetta per caffè
Bialetti, dono di viaggio offertomi da premurose cugine.
I due ragazzi nordeuropei sono gli
unici che hanno bevuto la nera bevanda insieme a me: gli altri
stranieri sono infatti letteralmente spaventati dalla moka e rifiutano
come fosse droga pesante questo nettare scuro dall’aroma per loro troppo forte.
Dal caffè
siamo poi passati agli "spaghetti bolognaise", che tuttavia Philipp e
Andrea hanno barbaramente accompagnato con una bibita effervescente al
limone.
Altro estimatore del
mio caffè è Luca Spessotto,
inquieto e coraggioso scugnizzo di Fuorigrotta, emigrato per
disperazione dal golfo di Napoli sei anni fa e da allora in giro per il
mondo. Luca
è
l’unico italiano che manda gli sms in inglese anche ai suoi
connazionali: ha infatti un cellulare austrambiano e non vuole
rinunciare all’uso del T9…

Con lui gioco a scacchi in cucina nelle vuote domeniche d’ozio in cui faccio il receptionist all’ostello.

Mi dispiace lasciare, dopo tre mesi, Eva’s e questo
quartiere di freaks – dove Faber avrebbe trovato ispirazione per una delle sue canzoni sui fiori nati dal letame -, ma mi eccita rimettermi in
viaggio, soprattutto con la migliore compagna possibile, uno dei miei
pochi ma preziosissimi centri di gravit
à.
E mi mancheranno i giapponesi che fanno bollire le tagliatelle in padella o gli inglesi che mangiano
toast farciti con fagioli e spaghetti al pomodoro (quelli che si vendono in lattina, già conditi).
Del resto il fascino della vita in ostello consiste proprio nel continuo via vai di viaggiatori.

 Quella porta d’ingresso gialla, affacciata su Orwell Street, è una
metafora di questa vita bagascia, di questa vita che va, di storie che
restano parallele e di percorsi che si incontrano casualmente, di viaggi completamente diversi e di viaggi
identici, anzi speculari in quanto fatti percorrendo la stessa strada, ma nelle due opposte direzioni.
Ho visto tanta gente fare i bagagli e partire, alcuni anche ritornare dopo mesi e quasi commuoversi nel ritrovare, nello stesso posto, le stesse persone che avevano lasciato andandosene.
Adesso sono io a vedermi di spalle che parto.

Ma lo faccio con la certezza di rincontrare – grazie a questo viaggio lungo un anno – alcuni dei personaggi che mi hanno accompagnato in questa prima parte dell’avventura…

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Ecco i nomi della lista

Maggio 2008


Intanto, in controtendenza rispetto alle lentezze burocratiche di queste
cronache austrambiane, Faccia di Gomma Parruccata apre la strada della
Semplificazione,  annunciando, a tempo di record, i nomi dei componenti della sua banda di scagnozzi…

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Faremo gli occhiali così!

Eccoci qua

La classe operaia va in paradiso?

Agosto 2007

"Another shity day in paradise" è la chiosa che Anthony, operaio addetto al reparto montature, appone saggiamente alla fine di ogni giornata lavorativa, entrando in macchina e preparandosi ad attraversare tutta Sydney per far rientro a casa.
Io siedo al suo fianco, allaccio la cintura di sicurezza e mi godo lo spettacolo di esaurimento da routine urbana offertomi da questo macilento signore con cappellino rosso della birra Carlton perennemente calzato in testa, occhiali da sole avvolgenti con lenti a specchio, collare ortopedico – retaggio di non so quale incidente d’auto – e lunga barba canuta da bounty hunter del bush metropolitano. Colonna sonora dello show: i primi quattro volumi della discografia dei Led Zeppelin, di cui il mio collega è grande fan.
Per
le prime due settimane di lavoro ho preso i mezzi pubblici, calcolando i tempi con fantozziana precisione: il treno alle 7 e 18 fino alla city e poi il
bus alle 7 e 26. Finché Anthony non mi ha offerto un passaggio quotidiano sulla sua Hyundai Getz bianca.
Il micragnoso mi
fa pagare i tre dollari del pedaggio del Sydney Harbour Bridge che collega il
centro città con la zona nord, dove io lavoro.
Ma lo spettacolo vale il prezzo del biglietto e non importa se l’ingiustificata trafficofobia del mio chauffeur mi faccia svegliare mezz’ora prima del necessario: la presunzione di ipotetiche code da evitare
si risolve, infatti, sempre e soltanto, nella certezza di ritrovarsi
davanti al cancello dell’officina con almeno trenta minuti di anticipo sull’orario d’inizio del turno: io  sfrutto questo tempo morto con una triste prima colazione consumata in magazzino. Bah!
D’altra parte, non ho alcuna intenzione di non essere testimone delle battaglie quotidiane di un uomo solo al volante contro tutti gli automobilisti di Sydney:
Anthony che, di tra
i baffi di stoppa cadenti fin sotto il labbro
inferiore
, vomita a denti stretti valanghe di fuck e cunt; Anthony che, con aria sfottente, tira fuori dal finestrino la sua mano sottile con il dito medio alzato; Anthony che schiaccia furente il clacson con tutti e due i palmi; Anthony che ha sempre fretta di arrivare…
Nei pochi momenti in cui non è impegnato nella furibonda guerra stradale, Anthony mi racconta del suo impegno politico: è iscritto allo shootersparty, partito di cacciatori e pistoleri che
si batte per il ritorno in Austrambia di leggi permissive sul possesso di
armi da fuoco. Queste leggi furono abolite nel 1996, dopo il massacro di Port Arthur, importante sito turistico tasmaniano dove un pazzo uccise trentacinque persone in poche ore con un fucile semiautomatico.
K
eith, il responsabile del mio reparto, è invece un pacifista convinto.
Reduce degli anni ’60, con un passato di turbolenze rockettare, che viene fuori ogni qual volta trasmettano alla radio un brano della sua colonna sonora giovanile –  da lui salutato con un mirabile salto alla Pete Townshend – e un presente francescano, fatto di barba lunga e chiacchierate, durante la pausa pranzo, con la coppia di schiamazzanti
kookaburra che vive tra gli alberi dietro l’officina.


Anthony e Keith sono austrambiani di ascendenza anglosassone pura. Non sono quindi ascrivibili alla voce ornitorinco, chiave di volta della mia cartografia umana del paese dalla terra rossa. Q
uesto
schivo e crepuscolare animaletto,
endemico dei fiumi dell’Austrambia orientale e
bizzarro prodotto di un melting pot naturale – acquatico mammifero oviparo con
pelliccia, dotato di becco e
zampe d’anatra, oltreché di uno sperone velenoso – ha messo in crisi per anni ogni tassonomia zoologica.
Ai miei occhi curiosi di viaggiatore simboleggia le liminari e sfumate identità austrambiane.
Come quella di Zak Maritozzi, figlio di un italiano e di una
scozzese, che viene a lavoro con la maglietta dei campioni del mondo di calcio e rivendica la sua italianit
à, nonostante le uniche parole che conosca della lingua di Dante siano: "formaggio", "Geppetto", "Pavarotti" e "basta con la chiacchiere", frase pronunciata infinite volte, e a giudicare dai risultati, con poco profitto, dalla sua insegnante di italiano a scuola.
Oppure come quella di Bruno – operaio nello stesso reparto di Anthony – che è
nato a Sydney, parla inglese come prima lingua, e non si è mai mosso dall’emisfero australe. Ma vive, atteggiamenti e portamento compresi, nel corpo di un uomo del sud Italia: medio-bassa
statura, capelli corvini, pelle liscia e olivastra. I suoi genitori
sono emigrati da Vazzano, in provincia di Vibo Valentia, nel 1954. Via
mare.
Con ironica nostalgia, rivedo in lui, della gente della mia terra, l’allure disinvolto, a tratti ostentatamente malandrino: malandrineria che però è nel suo caso dote del tutto inconsapevole.

Parlo di quel
camminare con gli arti inferiori leggermente arcuati, spingendo
sincronicamente in avanti una gamba e il braccio opposto, l’altro
braccio che rimane indietro insieme alla gamba d’appoggio pronta al
passo successivo, che ripete specularmente il movimento precedente
come in un chiasmo cinetico;
le due spalle e il capo che assecondano, chinandosi e rialzadosi con
andamento ammortizzato, il moto oscillatorio degli arti superiori
corrispondenti; il torso immobile, centro di rotazione.


"Cumu?", a volte mi chiede quando
parliamo e non capisce alcune espressioni del mio dialetto di Calabria
citeriore, lui calabrese ulteriore sydneyano…



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L’oeil cacodylate

visioni

Non più ottico ma spacciatore di lenti
per improvvisare occhi contenti.
Perché le pupille abituate a copiare
inventino i mondi sui quali guardare.
Seguite con me questi occhi sognare,
fuggire dall’orbita e non voler ritornare.


 
 
 

Agosto 2007

Dopo decine di tentativi improbabili, innumerevoli  barriere
linguistiche non superate – barriere che diventano labirintiche
muraglie quando tra me e l’interlocutore c’è di mezzo il subdolo apparecchio inventato da Antonio Meucci
– e continui smarrimenti nella selva di un idioma ancora oscuro, come
in un famoso film di una famosa figlia di un regista italoamericano
molto famoso
; ce l’ho finalmente fatta. Ho trovato un lavoro!
Da un mese faccio il magazziniere-operaio per la Healy Australia, rivenditrice all’ingrosso di occhiali e affini.
La conversazione telefonica con il responsabile delle umane risorse della ditta
è
stata una delle meno imbarazzanti di tutta la mia recherche: se non
altro sono riuscito ad intuire l’indirizzo e l’orario dell’appuntamento
per il colloquio. Immediata, a quel punto,
l’assegnazione del posto, data l’inesistente specializzazione richiesta per lo svolgimento delle mie mansioni.

La Healy acquista, principalmente sul mercato
asiatico, montature di occhiali da sole e da vista, astucci
portaocchiali, pezzuole e spray puliscilenti and stuff like that; poi
personalizza tutto questo materiale con i logotipi di ottici e
optometristi austrambiani; infine spedisce il prodotto finito ai suoi
clienti dettaglianti. Io lavoro al reparto "astucci e pezzuole"
insieme a Martin, Zak e Keith.
Ogni giorno arrivano in magazzino decine di scatole cinesi: dove "cinesi" è da intendersi non solo nel senso denotativo e banale del termine (made in China) ma anche, in qualche modo, nel senso connotativo e tronchettiproveristico dello stesso.
Ogni scatola, infatti, contiene un certo numero
di scatole più piccole che contengono a loro volta una serie di scatole
ancora più piccole che contengono a loro volta un foglio di carta
velina che avvolge, da par suo, un astuccio portaocchiali.
Il mio lavoro consiste nello scartare tutto questo materiale, comprese le pezzuole – che però,
per fortuna, arrivano in un’unica scatola… anch’essa cinese -,
stamparlo serigraficamente, aspettare poi che l’inchiostro si asciughi,
e infine rimpacchettare il tutto, stando attento a non dimenticare
l’esatta posizione occupata
nel pacco "contenitore"
da ogni pacco "contenuto": pena l’impossibilità di richiudere
propriamente il tutto e l’infernale contrappasso del disimballaggio e
rimballaggio, come in una sorta di infinito Sokoban, cervellotico
videogioco giapponese degli anni ’80 che meglio di Tetris esprime la ratio del fare i pacchi…
L’operazione di stampa prevede una piccola
catena di montaggio di due persone: prendi l’astuccio o la pezzuola
poggialo sulla stampatrice aspetta che l’altro ingranaggio della catena
(di solito Martin) stampi il pezzo riponi il pezzo su una grata di
metallo affinché si asciughi tieni a bada la foga di Martin (ragazzo di
origini ceche, forse geneticamente
compromesso dalla disciplina comunista) spesso
rapito da trance stampatoria che gli fa aumentare forsennatamente il
ritmo di produzione costringendoti ad un insensato stakhanovismo, e
continua così senza posa ripetuta ripetuta brr brr ripetuta ripetuta ripetutamente.
In tal modo, tra afrori di inchiostro e acquaragia, conati luddisti – acuiti dalla scoperta che la stampante serigrafante è italiana (esattamente milanese) e dall’essenza martellante delle radio austrambiane con le loro ossessive tracklist -, visioni psicodolciarie – gli astucci colorati lasciati ad asciugare sui carrelli a ripiani che diventano i cornetti appena usciti dal forno dello schizzoide (noto pasticciere romano), l’inchiostro utilizzato per la stampante e spalmato sul telaio con una spatola che si trasforma in nutella cosparsa su una crêpe calda
e tanti, lunghi sbadigli, le ore scorrono lente, ritmate dal rumore
delle macchine, nel magazzino-officina che non a caso si trova in
Chaplin drive.
Questo il ritmo di produzione – da fare invidia al povero Lulù Massa-Volontè
– calcolato approssimativamente su sei ore di lavoro: 1 astuccio (o
pezzuola) ogni 6 secondi, 10 astucci al minuto, 100 astucci ogni 10
minuti:
pi
ù di 3000 pezzi al giorno!
Ad ogni modo, stranamente, non mi lamento: il lavoro manuale fa bene allo spirito e, soprattutto, al portafoglio: i dollari netti, alla fine del mese, sono 2240.
E
mi sovvien la ministeriale Schiappa Padoana – o l’alter ego ragionier
Treconti di là da venire -, con i suoi quotidiani quattro morti
schioppati sul lavoro e con i suoi pensionati forzati a rubare un chilo
di pasta al supermercato per non morire di fame!

A questo punto, data l’enorme quantità di astucci scartati e rincartati,
e il forte simbolismo degli oggetti "occhiali" e "custodie", il
narratore avrebbe voluto lanciare il concorso "Dippold the optician –
Message in a case. Scrivete un messaggio agli austrambiani e
l’austrambio lo spedirà per voi, via portaocchiali". Il vincitore,
selezionato in seguito a un gran concorso, avrebbe avuto in premio un
fodero in finta pelle modello "Trevet".

Ma forse oramai è un po’ tardi…

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À rebours

I fatti
narrati al presente nei prossimi post sono accaduti negli ultimi due mesi.

Il ritardo accumulato è dovuto al duro lavoro che il narratore ha  affrontato
a Sydney, al grand tour attraverso deserti, isole incontaminate (o quasi) e barriere
di corallo che il narratore ha affrontato insieme alla sua compagna
di viaggio e di vita, e al nobile otium, dolce insidia interna, che quotidianamente
affronta l'inerme narratore medesimo.
L'austrambio
in questo momento si trova a Perth (due fusi orari e 4000 chilometri circa a ovest di
Sydney, suo primo approdo nell'emisfero meridionale). Cercando un altro travaglio.
Ha già un amico: Bob,
melbournese di mezza età, suo sregolato compagno di stanza all'ostello
.
Baffi e panza da elefante marino, Bob lavora di notte e dorme di
giorno, con il pigiama che mamma gli fece, ma con i calzini. Appena conosciuto il nostro, ha subito prodigato tutto s
é stesso per aiutarlo nella recherche: è
saltato dal letto e, senza neanche sciacquarsi la faccia, ha indossato
un pantalone una maglietta e l'ha immediamente portato in un'agenzia
di lavoro, l'ha poi introdotto ai luoghi principali della citt
à
e gli ha romanticamente indicato un buon ristorante dove trascorrere
l'ultima malinconica serata austrambiana con la fidanzata in partenza…
Senza sapere che l'austrambio si trova, momentaneamente,  romanticamente al verde…

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Un post sul posto dove scrivo i post

I giapponesi fanno ooh
che meraviglia, che meraviglia

Sono seduto su una comoda poltrona manageriale, con ruote e braccioli, di fronte a un monitor a cristalli liquidi, al primo piano interrato di un grattacielo di oltre quaranta piani situato in George Street, una delle arterie principali del centro di Sydney. Il computer che sto utilizzando – al pari degli altri duecento che gli stanno vicino, in un open space ipertecnologico – è dotato di webcam, cuffie, microfono e di tutti i programmi di cui un cibernauta (anche di medio-alto livello) può avere bisogno. Il costo del servizio è quasi ridicolo: un dollaro all’ora.
Senza questo internet point, le cronache telematiche dall’Austrambia riuscirebbero molto più lacunose e sporadiche di quanto già non appaiano.
Il posto non
è dei più tranquilli e rilassanti, ma oramai – dopo tre mesi di frequentazione quasi quotidiana – qui sono di casa, e riesco a concentrarmi e scrivere nonostante i fattori di disturbo siano diversi.

Innanzitutto, la musica: i programmi radio in diffusione trasmettono canzoni sempre uguali a se stesse, ossessivamente ripetute giorno dopo giorno, come se il repertorio delle stazioni locali si limitasse ai quattro o cinque successi del momento.

In secondo luogo, una comitiva di napoletani che ogni sera, verso le nove e mezza, fa il suo ingresso fragoroso nell’internet café. Si tratta di tre famiglie venute in Austrambia per una lunga vacanza di novanta giorni, ma fermatesi a Sydney per più di due mesi, secondo lo stile stanziale dei turisti italiani moderni, ormai dimentichi dei viaggi avventurosi degli illustri antenati Polo e Colombo. I maschi – adulti e bambini – consultano ansiosi il web per aggiornarsi sugli acquisti del ciuccio e si scambiano ad alto volume le notizie da un capo all’altro della sala; le femmine intrattengono i parenti – collegati via skype dalle pendici del formidabil monte sterminator Vesevo – importunando i pazienti giapponesi che siedono accanto a loro e che vengono amichevolmente costretti a sorridere e ossequiare in faccia alla webcam. Un componente della compagnia si inserisce anche nella mia conversazione con zia Maria e insiste tanto per salutarla.
Cos
ì mi ritrovo ogni volta a digitare queste righe in un crescendo di "Ciro!", "Ué! Ma che ‘re? E famme parla’ pur’a mmé…", "Mamma vado a cambiare i soldi" – parole, queste ultime, più consone ad una sala giochi di Sangineto in agosto che ai grattacieli di una metropoli.
Il terzo fattore di disturbo è rappresentato dai ragazzi venuti dall’oriente: accaniti giocatori di videogames su internet che commentano ogni passaggio cruciale delle loro partite riproducendo a volume massimo i caratteristici versi di stupore che i loro connazionali più maturi emettono in presenza di qualunque pezzo di marmo o tela colorata in cui si imbattono nei loro viaggi europei.
L’aspetto più affascinante e misterioso del mio internet point è infatti la sala giochi, separata dai computer di uso comune mediante una vetrata. All’ingresso di questo spazio dedicato c’è una scritta – "no noobs" – il cui significato mi risulta inizialmente oscuro. Dopo una breve inchiesta, capisco che fa riferimento ad una pratica esoterica e vuol dire che i non iniziati alle dottrine elettronico-giocherecce non sono accettati nella sala. Per una descrizione più dettagliata del fenomeno ludico-discriminatorio, suggerisco la lettura di questa pagina di Wikipedia.
Da quasi tre mesi vedo gli adepti di questa sorta di rito orfico accedere quasi ipnotizzati al tempio, e a causa di un sentimento di rispetto ma anche di paura non ho mai il coraggio di profanarne il vestibolo. Sono certo che alcuni di questi giovani ossessionati fedeli finiranno per essere ricoverati in una di quelle assurde San Patrignano giapponesi o coreane
in cui si cura la dipendenza da videogames

Ok computer!

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Sei anni fa

Ed avevamo gli occhi troppo belli…

Qui in Austrambia pare non se ne sia accorto nessuno.
Eppure, esattamente sei anni fa, esattamente a quest'ora, un ragazzo come me, veniva ucciso in piazza Alimonda, a Genova, dal potere costituito.

Questo è un epitaffio su web, in ricordo di quel ragazzo e di quei giorni straordinari e terribili che hanno segnato per sempre la vita della mia generazione.

We won't get fooled again!

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Lost in the supermarket



Fallita la prima
avventura lavorativa, decido di tentare altre vie, senza abbandonare certa romanzesca suggestione.
Faccio un provino da cameriere in un sedicente ristorante italico, situato nel quartiere scioglilingua
di Woolloomooloo: "Si chiama Sienna marina: come la città toscana" mi dice al telefono il proprietario (libanese) del ristorante (italiano). Bah!
Vado al training con gucciniano maglione blu e scarpe da tennis bianche – il completo più elegante che ho portato con me in Austrambia -, contravvenendo alle prescrizioni da schiattamuorto del titolare: "Vieni di nero vestito"; e il cuoco – presumibilmente libanese anch'egli -, infastidito dal mio abbigliamento poco professionale, mi manifesta immediatamente il suo caloroso affetto mediterraneo con un cordiale benvenuto: "Ecco qua! Un altro fottuto italiano!"
Date tali incoraggianti premesse e data la mia completa inesperienza in ambito di servizio ai tavoli, dopo una serie di gag da cinematografo chapliniano, non supero la selezione e vengo rimandato a casa in compagnia di una imitazione di pizza napoletana, offerta dalla ditta per il disturbo.

Terzo tentativo.
Un lavoretto part time e in nero che si posiziona all'ultimo gradino della scala di difficoltà delle occupazioni da backpacker. Il mio compito consiste nel distribuire
cartine gratuite di Sydney ai negozi, ai ristoranti e agli alberghi del centro città e delle località turistiche periferiche.
Le cartine sono gratuite in entrambe le accezioni del termine: non costano niente – essendo assediate da legioni di messaggi pubblicitari
– e non servono a niente – essendo di ardua lettura topo ma anche tipo… grafica. Mio fido ronzinante, in questa nuova entusiasmante impresa, è un carrello portapacchi carico di quattro scatole di mappe.
Quando entriamo al galoppo nelle fortezze in cui le mie pieghevoli
armate di carta colorata dovrebbero facilmente dilagare (i grossi centri commerciali: solo nella City se ne contano una decina), la nostra spavalderia si smarrisce nel labirinto dei negozi, e lo stordimento da ipermercato ci porta ad entrare due o tre volte, in un'ora, nello stesso esercizio: in tali frangenti ci ritroviamo – cavaliere e cavallo – disorientati, davanti a commesse che, se dapprima appaiono più disorientate di noi, dappoi ci rivestono di sguardi pietosi e ironici insieme.
Il mio superiore – in grado di carrello, ma non di cervello – si diverte a fare acrobazie con il suo destriero e annota gli appuntamenti a penna sul palmo della mano destra, essendo mancino. Si chiama Ricky, ha trentadue anni ed è neozelandese. Usa il telefono soltanto per digitare messaggi: ogni suo testo è sempre rincorso da un gruppetto di tre o quattro inseguitori che mi coinvolgono immancabilmente in una catena estenuante di botta e risposta, complicata dalla mia scarsa attitudine per i cellulari e per l'ermeneutica del linguaggio iniziatico degli sms, soprattutto se composti in inglese da un neozelandese.
Ovviamente, ho dovuto accettare questo lavoro via short message service e, di conseguenza, sto tuttora aspettando il primo pagamento: spero non avvenga anch'esso attraverso il medesimo sistema di comunicazione.

Non ho comunque abbandonato l'idea di rigiocare la carta del camerierato; anche se, con il passare dei giorni, le descrizioni di nuovi e affascinanti mestieri, raccolte all'ostello dai racconti distratti di navigati backpackers, affondano sempre più nel mio poroso immaginario austrambiano e si trasformano in surreali esperienze cui perversamente aspiro:
raccogliere il miele dai favi negli allevamenti di api, tosare pecore nelle fattorie dell'outback, fare lo sciuscià nei Grandi Magazzini della regina Vittoria, raccogliere banane o tabacco nelle piantagioni del Queensland…

                                                        

Giù le mani dai videogiochi

Posted in Sydney | 19 Comments

Everything in its right place. Circa

commesso viaggiatore

I feel mean… I feel O.K.      
I'm charged up… Electricity   

                                                              
"Hi man! How are you doin'? I'm Giovanni, from Integral Energy, your electricity provider. I'm here to upgrade you to green energy at no extra cost". In una settimana di lavoro, ho ripetuto le suddette parole circa duecento meccaniche volte.
Questo il business: la compagnia elettrica del governo del New South Wales sta tentando – in vista delle elezioni di fine anno, che si preannunciano come le più ecologiche della storia austrambiana – di convertire alle energie rinnovabili i suoi clienti: e, tramite una società di marketing, assume giovani commessi viaggiatori bussatori di porte, li spedisce presso le abitazioni degli inconsapevoli bruciatori di inquinante carbone e – grazie ad un miserabile contratto da cottimista – li costringe a tartassare i bersagli per estirpare loro una firma di approvazione, redentrice dell'ambiente e, soprattutto, della busta paga del suonatore di campanello.
Ancora mi domando come ho fatto, con il mio inglese dalla inequivocabile cadenza cosentina, a superare il primo colloquio e poi i due giorni di prova, altres
ì considerando che il selezionatore è Aron, catanzerese trapiantato in Inghilterra in tenera età, ma forse non del tutto ignaro della storica rivalità che accende e divide i due opposti versanti della Sila (la Calabria Citeriore e quella Ulteriore).
Ad ogni modo, sono dentro, e decido di stare al gioco.
Si parte ogni mattina alle dodici:
gli elettrici rappresentanti, dotati di mappa della zona e indirizzi e nomi dei clienti prescelti, vengono condotti e sguinzagliati nei più remoti suburbi sydneyani.
Capobanda: Zara: una ragazza inglese che ha preso la patente a Napoli, pippa cocaina, chiama tutti darling ma ha gli occhi da lupa e costringe la multiculturale truppa del pulmino – da lei guidato in modo vomitogeno – ad ascoltare otourticante house music.
Compagni d'avventura:
due indiani ventenni qui giunti al seguito di mogli studentesse universitarie, un fenicio scroccone e fezzardo, un inglese pasticcione, un australiano ritardato e Anthony, un mezzo maori dalla lunga treccia nera e dai baffi sottili, atti a coprire la mancanza degli otto denti davanti (la di lui dentatura ha inizio dai canini): insomma, un garbuglio multietnico, tenuto insieme dall'esperanto d'Albione.

"The power is in your hands"
è il motto dell'azienda: e qui tutti cercano di superarsi e di superarti, di spingere il loro lavoro oltre l'umano confine; e poi ti parlano e non ti guardano: nascondono la loro carenza di personalità dietro un'affettata protervia. I più onesti sono i ragazzi indiani ed Anthony. Il neozelandese dice che questo lavoro è l'occasione più importante donatagli dalla fortuna, ma la sua faccia è pulita e severa, e non so quanto durerà in questa bolgia di arrampicatori.
Io, da parte mia, in cinque giorni trascorsi vagolando per quartieri residenziali spesso privi di illuminazione stradale, esposto alle intemperie di un impoderabilmente inclemente inverno austrambiano, riesco a strappare la firma di due soli clienti.
I
soggetti più interessanti che incontro sono quelli da cui non cavo nulla, come mr. Caruso: un siciliano che ce l'ha col governo e con tutti i suoi – anche più indiretti, come me – rappresentanti, e che afferma di parlare inglese meglio del sottoscritto: per dimostrarlo mi ricopre di maleparole nella sua lingua acquisita, avvalorando la mia teoria sulla povertà di lessico bestemmiatorio dell'idioma britannico.

Questo mestiere dai risvolti imprevedibili mi avvicina a certi personaggi di certa letteratura americana – come ha detto qualcuno -, ma non fa per me. Dipende troppo dal mio barcollante inglese e dalla mia scarsa attitudine a convincere le persone.
Del resto, come poter portare il verbo ambientalista – considerando anche la mia congenita sfiducia in ogni genere di parola rivelata – a gente che
tiene accese le luci di sicurezza a casa per dar a pensare di esser dentro, anche se magari è fuori da un mese; e poi monta, alle porte d'ingresso, dei campanelli elettrici che suonano melodie lunghe quaranta secondi? In un paese che detiene, insieme agli Stati Uniti, il primato delle emissioni di gas serra e che ha avuto il coraggio di non firmare, sempre in compagnia del nuovo impero di Testa di Macaco, il pur inutile protocollo kyotesco?

Abbandono così, senza rammarico, questa mia prima attività austrambiana: e quello che mi resta nelle mani, non è il potere; ma un ben più utile corredo da commesso viaggiatore: un giaccone invernale, due magliette tipo Lacoste, un berretto di lana e un borsello: tutti targati Integral Energy. The power is in your hands!

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A noi cafoni ci hanno sempre chiamati

Figlio…
che andrai a confondere la tua faccia
con la faccia dell'altra gente
e che ti sposerai probabilmente
in un bordello austrambiano
e avrai dei figli da una donna strana
e che non parlano l'italiano.
Ma mamma io per dirti il vero
l'italiano non so cosa sia
e pure se attraverso il mondo
non conosco la geografia…

Angelo è nato a Catania nel 1940.

È arrivato a Sydney nel 1966, seguito, dopo diciotto mesi, dalla moglie e dal figlio di un anno: da allora è ritornato in Italia solo tre volte: l'ultima nel 1991.
Io, in due anni, sono venuto qui in Austrambia già due volte.
Angelo, appena mi guarda negli occhi, il nipotino in braccio, – "Si chiama come il nonno", dice orgoglioso – mi riconosce: capisce che vengo da una terra ruvida ma forte di ulivi secolari come la Sicilia. Gli racconto la mia storia – anche se indubbiamente preferirei ascoltare la sua -, fin quando la fragile manina dell'altro Angelo non riesce finalmente a sgusciare via dalla sua mano legnosa, lavorata da anni di fatiga. Il nonno rincorre il bambino e mi lascia, voltandosi, con un "Non ti perdere… E  statti bbonu".
Vado alla bancarella dei cannoli.

Dopo appena dieci giorni di permanenza a Sydney, mi ritrovo al "Primo italiano", a Darling Harbour. Non ho capito esattamente cosa significhi, ma questo
è il nome scelto dagli emigrati italiani per la loro festa.

"Pina? No more Ricoddah!" dice perplessa, all'amica, una signora rubizza e piuttosto provveduta del suo, per significare la prematura scomparsa – negli avidi apparati digerenti degli italoaustrambiani, memori di fame antica – dei preziosi dolciumi cilindrici, sicilianamente farciti del dolce e soffice latticino.
Deluso dalla ferale notizia, entro nella sala concerto. Il palco, con i suoi cantanti da sagra della sazizza, non attira la mia attenzione: nihil novi sub sole, direbbe secca la mia professoressa del liceo. Un appena accennato sorriso da déjà vu, e volgo lo sguardo alla platea: i volti, i corpi, le posture, ma anche le giacche degli uomini e le gonne delle signore, sono quelli delle piazze e delle chiese della mia terra.
Nonostante il giornale degli italiani si chiami Fiamma e la radio Movimento, nonostante il banchetto dei Giovani Siciliani d'Australia trasmetta ininterrottamente filmati del paleolitico monsignor Camillo Ruini, nonostante quasi tutti i partecipanti alla festa siano elettori dell'ottavo nano e nonostante la colonna sonora della giornata sia la versione disco della cutugnana "Lasciatemi cantare", la scena di trecento persone sedute ad ascoltare le note di "Con te partirò" mi cattura: brividi di pudore – questa gente coraggiosa, rifletto, non ha avuto le stesse opportunità di cui godo io, che mi lavo i denti tre volte al giorno con il Colgate – o d'orgoglio – anche grazie a loro io sono qui oggi, con un visto di un anno – si rincorrono lungo la schiena e le braccia, fino alle gambe.
Se non ci fosse l'Opera House di fianco, sarei certo di trovarmi a Longobucco, in Sila.

D'ä mæ riva                                       Dalla mia riva
sulu u teu mandillu ciaèu                   solo il tuo fazzoletto chiaro
d'ä mæ riva                                       dalla mia riva
'nta mæ vitta                                     nella mia vita
…                                                     …

e u so ben t'ammii u mä                      e so bene stai guardando il mare
'n pò ciû au largu du dulú                    un po' più al largo del dolore
e sun chi affacciòu                              e son qui affacciato
a 'stu bàule da mainä                          a questo baule da marinaio
e sun chi a miä                                   e son qui a guardare
…                                                     …
'nte 'na beretta neigra                         in una berretta nera
a teu fotu da fantinn-a                        la tua foto da ragazza

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