Quei farabutti di Adamo e di…

                       

 

  Non siamo più
  figli del ciel
  figli del cielo

… Eva’s Backpackers.
Così si chiama l’ostello dove alloggio da dieci giorni.
Si trova in via Orwell, nome che mi ha da sempre affascinato, e che, dopo l’avvento della mia propria personale era del cellulare, si
è caricato di ulteriori, e solo fino a pochi giorni fa impensabili, significati.
Star
ò da Eva per un’altra settimana ancora. Qui ho l’occasione d’incontrare tanti viaggiatori e raccogliere molte informazioni utili; inoltre c’è la terrazza sul tetto con tavolini, barbecue e vista sui grattacieli della City, c’è l’internet gratis, la prima colazione con approvvigionamento ad libitum, e il prezzo è molto più basso dell’ostello di prima. Tuttavia ho immancabilmente e giannescamente trovato un difetto, e non da poco, pure ad Eva: la massiva presenza e il continuo afflusso di germanici, che, oltre al gravame di monotonia connaturato alla stirpe ariana – e nonostante le genti teutoniche nutrano, fin dai funesti tempi dell’asse Testa di Morto-Baffo Belva, una spontanea simpatia nei confronti dell’Italia e degli italiani che li rende un po’ meno tristi al contatto con le genti del bel paese -, rischia di appiccicare addosso al mio inglese un forte accento da panzer.
Delle sette persone che finora hanno dormito nella mia stanza, ben cinque sono tedesche. Una di queste – la veterana della camera – si è rivelata dotta conoscitrice della musica italiana, fine estimatrice di Albano e Romina Power, Nek, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti, ma totale disconoscitrice dell’Übermensch del grande filosofo coi mustacchi, clamorosamente da lei confuso con l’alter ego di Clark Kent, volante supereroe dei fumetti.

Eva
si trova nel quartiere di Kings Cross: mi ha qui condotto un felice suggerimento di Filipponi, ma l’accoglienza ricevuta non è delle più calorose. Arrivato in zona da un paio d’ore, non appena mi butto in un parchetto di fronte all’ostello, per leggere il mio bravo romanzo e rilassarmi, vengo proditoriamente fatto oggetto delle ben poco discrete attenzioni olfattive di un cane sbirro accompagnato da altri cinque sbirri cani in giro di ronda à la recherche di pischelli consumatori di droghe leggere. Capisco che da queste parti non è aria e vado a farmi un giro per la strada principale, dove ricevo inopinatamente altre attenzioni, di altra natura: protagonisti di Durlinghurst Road, insieme a vari ubriaconi solitari, a tratti molesti, sono infatti ricchioni mignotte e lenoni adescanti – che mi fanno scabrose proposte di sex massage o sex e basta.
Un ambiente di tal fatta rende la vita a Kings Cross meno cara che in centro e inoltre la zona pullula di pub e ostelli, quindi di giovani viaggiatori da ogni parte del mondo: tutto sommato, questo è un posto tranquillo. E poi ho trovato il mio ristorante preferito, a due passi dall’ostello: Thai power, dove per meno di sei euro ti danno un piattone di tagliolini thailandesi (thaigliolini) con gamberi e verdure. E poi ho trovato oramai un infallibile sistema per ravviare in due minuti il letto al secondo piano del castello: per altro, penso di essere l’unico in tutto l’ostello che si rifà il giaciglio ogni mattina. E poi ho trovato un ragazzo francese che mi ha insegnato un sistema per fare la lavatrice da Eva, utilizzando i cotton fioc al posto dei dollari…

Il personaggio di spicco dell’ostello è senz’altro Carmen, una pacchiarotta ecuadoriana che fa le pulizie mattutine. Fanatica dell’igiene, sente puzza dappertutto e se la prende anche con gli innocui ragnetti che si annidano negli angoli più reconditi delle stanze. Spesso si aggira per le scale con la bombola dell’aspirapolvere in spalla e il tubo imbracciato a mo’ di arma da fuoco, come una palombara negli abissi del Sudicio.
Grazie a lei sto imparando alcune utilissime parole spagnole di uso quotidiano: higiene, limpieza, ordén e perfume…

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Il post del cellulare

                  

Mobiles working

Mobiles chirping

Here I'm alive
Everything all of the time

 
 


Non devo giustificarmi: quindi non lo farò.
Tuttavia, prima di pensar malissimo, guardate bene la foto.
All'ostello Railway Square c'
è uno scaffale chiamato "Give and take" – "Lassa e piglia" si direbbe dalle mie parti, anche se con un netto predominio del "piglia" -, sistemato proprio di fronte alla mia stanza: è una sorta di mercatino dell'usato senza denaro: se hai qualcosa che non usi più ma che è ancora funzionante, la lasci lì; se trovi qualcosa che ti serve e che userai, la prendi. Semplice e geniale riciclaggio di oggetti da viaggiatore. A Cosenza, ma direi in tutta Italia, durerebbe meno di dieci minuti: il tempo di far tabula rasa.
Il primo giorno elargisco il mio piccolo obolo – un rotolo di nastro adesivo che mi avanza -, senza pensare ad alcuna contropartita.

Il terzo giorno accade il pasticciaccio.
Poco prima di lasciare definitivamente la stanza – che secondo il programma iniziale avrei dovuto lasciare dopo non più di due notti -, mi soffermo, come al solito, davanti allo scaffale, e quando vedo non uno, ma due telefoni cellulari Nokia con scheda – carica di qualche dollaro – e caricatore e batteria di ricambio in bella mostra sul ripiano superiore, un fiotto di sangue incuriosito, forse angosciato, mi inonda il ventricolo di destra. Poi penso: carpe diem: se non prendo questo, mi faccio anche quest'anno senza!
Dopo alcuni secondi di imbarazzata indecisione, scelgo il
più piccolo e mando il mio primo messaggio a Marie.
A questo punto
è proprio il caso di infilare il mio secondo bah bloggarolo. Bah!

Grazie all'eterno ritorno, ecco sopraggiungere il crepuscolo degli idoli, o meglio in questo caso, dei miti: direbbe forse Qualcuno.

Ad ogni modo, rilassatevi: restituirò il malefico oggetto al "Lassa e piglia" subito prima di tornare in Italia.
E per il numero, chiedete pure a Nadal.

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Aquí estamos



Finalmente Sydney.

Arrivo alle nove e mezza del 28 maggio, ma un piccolo contrattempo mi trattiene per circa due ore all'aeroporto. Dopo l'atterraggio, la signora dell'ufficio immigrazione incolla il visto sul mio passaporto, ma il suo inefficiente collega – credo trattasi di questurino australe -, nonostante mi lasci passare, dimentica incredibilmente di apporre il timbro d'ingresso. Così metto piede in Oceania, ma lo faccio praticamente da clandestino. Non che questo mi procuri particolari problemi di identità, anzi. Tuttavia non vorrei essere rimpatriato alla prima verifica dei documenti: quindi torno indietro, chiedo spiegazioni e dopo un'ora ottengo l'agognato timbro.
Per i primi giorni decido di sistemarmi nell'ultimo ostello dove avevo alloggiato due anni fa, subito prima di ritornare in Italia. Il Railway Square YHA – che sta per Youth Hostels Australia (Ostelli della gioventù australiani), dove tuttavia vengono accolti anche gli ormai non più giovani – si trova di fianco alla stazione centrale dei treni e alcune stanze sono ricavate in vecchi vagoni posizionati su un binario morto. L'ostello non è tra i più economici, ma è facile raggiungerlo dall'aeroporto e poi mi piace – nietzschianamente – iniziare questo viaggio dove era finito l'altro.

Gli accessi di narcolessia dovuti al fuso orario e al lungo viaggio in aereo appesantiscono i miei primi tre giorni di permanenza. Per di più, aquí in Austrambia è tutto ara 'mmersa, e ciò alimenta il mio disorientamento:
in cielo, la Croce del Sud al posto dell'Orsa Maggiore, i candidi e graziosi gabbiani in compagnia di policromatici pennuti esotici al posto dei ratteschi piccioni romani e l'aria tersa e respirabile anche se il traffico non manca; a terra, gli opossumi che scorrazzano di sera dinoccolati e paciosi nei parchi del centro, la gente che rocambolescamente mangia gli spaghetti o il riso camminando per strada – in una versione prosaica e postindustriale dell'aborigeno (d'Australia) creare cantando e camminando o dello zapatista camminare domandando -, la guida a sinistra, i tassisti indiani al volante col turbante, meno di mezza decina di scooter circolanti in tutto il centro di Sydney e i semafori che emettono un metallico suono di sgommata quando scatta il verde.
E nemmeno
un ecclesiastico, di qualsivoglia ordine, per strada.
Tuttavia…
Austrambia, You're the reason I'm a-travellin' on
So don't think twice, it's all right…

Ps: dal prossimo post comincia l'aggiornamento in tempo pi
ù reale. Magna cum novitate.
Scusate il ritardo.
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Taipei. Come un semaforo


"You are from Italy?" "Yes." Ooohhh! Buoonaa…
seeraa!"
Questo lo scambio di battute con un inspiegabilmente sbalordito portiere alla reception dell'albergo, dove, per inciso, anche a prima colazione servono soltanto immangibili nefandezze cinesi.
Sembra sia raro vedere un italiano da queste parti: del resto, io in tre giorni ho contato circa quattordici musi bianchi.

Ho la sensazione che il turismo a Taiwan sia quasi esclusivamente di origine asiatica e me ne dà conferma un altro episodio di stupore generato dalla mia presenza a Formosa.
"Why are you here?" mi chiede infatti una ragazza dopo la mia orgogliosa attestazione di origine controllata – "I come from Italy" –, come se fosse davvero bizzarro fare turismo a Taipei venendo dall'Italia.
Perfetta cornice di questo surreale dialogo è l'internet point più lussuoso in cui io abbia mai digitato: singoli séparé con divanetto, ampia scrivania, videocamera su ogni monitor e prima bevanda offerta dalla casa; unico difetto: il freddo polare. Anche Taipei, come Bangkok, è climaticamente impostata su un rigido dualismo: freddo secco da mal di testa immediato in tutti i luoghi chiusi e soffocante caldo umido da occhiali appannati per l'escursione termica all'aria aperta!
A questo punto penso sia proprio il caso di infilare il mio primo bah bloggarolo. Bah!

Cosa si può vedere in una città grande e misteriosa come tutte le metropoli del sud est asiatico in due giorni di turismo aggressivo ma necessariamente superficiale?
L'unica via
è quella del collage di istantanee.
Visito un paio di templi
– spazi di spiritualità nascosti tra i grattacieli o negli angusti vicoli gonfi di odori di cucina cinese – senza capire quale sia la religione professata in questi posti. Poi leggo sulla guida che le divinità venerate nei templi taiwanesi appartengono a diverse religioni e che sono molto diffusi anche i culti sincretici, e penso all'arcivescovo Angelo Bagnasco in preghiera, in un tempio buddhista, davanti a una statua di Gesù sorridente e seduto sulle gambe incrociate.
Poi vedo il grattacielo pi
ù alto del mondo. Si chiama Taipei 101 e ha la forma di un bambù: mezzo kilometro di altezza e centouno piani di architettura avveniristica ma ispirata a una delle piante più diffuse nell'ambiente circostante.
L'ultimo giorno lo dedico al Museo del Palazzo Nazionale, dove sono conservati centinaia di capolavori di ottomila anni di cultura cinese. C'
è anche la possibilità di visitare una mostra temporanea con alcune opere provenienti dal British Museum, ma penso di non essere venuto a Taipei per vedere statue romane e disegni di Raffaello Sanzio: così mi lancio tra preziose miniature in avorio della dinastia Qing e statuette di giada provenienti dalla Città proibita. Al museo c'è traffico, come per strada: folle di bambini vocianti e gruppi di turisti condotti con severità da guide che non badano ai dettagli delle opere d'arte e spintonano chiunque ostacoli la loro corsa: mancano solo gli scooter con tre persone sul sellino. Se non altro, però, la visita è più emozionante della solita processione di turisti adoranti nei barbosi musei europei.

Alla fine della giornata al museo, salgo su un autobus che forse va all'aeroporto internazionale Chiang kai-shek: l'autista, riverente e gentilissimo, ovviamente non sa una parola di inglese e non sa spiegarmi dov'è diretto il torpedone. Purtroppo, proprio quando gli odori e gli umori delle strade di Taipei stanno per incollarmisi addosso, devo lasciare Taiwan. Ho la testa già a Sydney e la consapevolezza di non aver visitato con la dovuta calma una grande città dove forse non avrò più occasione di tornare.
E come attraverso le strade affollate di passanti e gli incroci con quaranta scooter da un lato e dall'altro in attesa che scatti il semaforo, io la mia condizione di turista frettoloso a quegli omini virtuali pedoni taiwanesi vo comparando: che quando scatta il verde camminano a passo svelto mentre il tempo mancante al rosso scorre inesorabilmente sopra la loro testa, e poi corrono affannati quando il pedone reale ha solo cinque secondi per passare sull'altro marciapiede.
Nuovo lavoro da cinesi…
eh… eh…

    

                                                              

 

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Altro che Chatwin

 
 
You must leave now, take what you need, you think will last
But whatever you wish to keep, you'd better grab it fast

The highway is for gamblers, better use your sense
Take what you have gathered from coincidence


Questo blog, questo viaggio, questa pazzia nascono da qui:
http://altrochechatwin.splinder.com. L'idea dell'Australia è di Filipponi. Io ci ho messo la mia voglia di fuga nella vita e lo schifo per come vanno attualmente le cose nel bel paese là dove 'l sì suona.

Dopo la truffa universitaria mi sono lentamente reso conto che non volevo più essere vittima di altre truffe didattico-formative come i master, le scuole, gli stage, i corsi ecc. Ho deciso che non volevo più curricula mandare, aspettare, sperare, masterizzare e precariare. Che fai? …Fiducioso che la mia richiesta… Che stai facendo? …In attesa di una cortese risposta… Quindi che vuoi fare? …Cordiali saluti!
Ho fatto una scelta critica: ma la crisi è mia o è della cosiddetta società democratica postindustriale? Parto per una terra lontanissima ma affascinante, già meta, in anni remoti, di tanti miei conterranei: le condizioni sono certamente più favorevoli, ma la voglia di non marcire in Italia, la nostalgia che mi
porto dietro e lo spirito di avventura sono immutati.
E poi mi sono
rotto il cazzo di lamentarmi, di sentirmi ripetere e di ripetermi sempre le stesse cose: la stagnazione, il laureificio, il precariato, la disoccupazione. Basta: parto.
Questo è il mio saggio!
 

Sono stufo di stare nella mia trincea di lusso.

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